venerdì 22 febbraio 2013

Ci occorre così tanto l'approvazione degli altri. Perché?

Quando scopro di avere svolto un lavoro particolarmente "bene", in modo efficace, soprattutto in modo efficiente in funzione di agevolare sviluppi successivi, rimango male ogni volta che mi rendo conto dell'indifferenza che suscita questo. Anzi, talvolta la velocità nel produrre risultati causa negli altri la diffidenza al punto che "rifanno i conti" ... per trovare, il più delle volte, che i miei dati erano corretti.
Perché rimango così male? che cosa mi importa di avere - non dirò l'approvazione o il plauso - il riconoscimento da parte degli altri colleghi? in realtà sono persone che non stimo; persone affette da un'incorreggibile doppiezza; persone che, nonché limitare, controllare i loro difetti, li ostentano con sfida. Di loro mi ferisce soprattutto questa capacità di manipolare; e mi stupisce la loro ostinazione a non volersi confrontare - non dico "con me" - con metodi leggermente più complessi, nel senso che anzichè per esempio stampare pedissequamente tutte le pagine, anche quelle vuote, potrebbero - come me e come migliaia di altri - impostare la stampa delle sole pagine interessanti... invece nulla. Stampa -> ok e via, undici, venti, venticinque pagine per ottenerne al massimo cinque utili.
Guardano con sospetto le cose nuove (nuove? è dal 1985 che è possibile scegliere le pagine da stampare!) e quando possono le rifiutano.
L'altra sera in treno pensavo a un romanzo di N. Hawthorne. Ora dopo due giorni ho capito perché

domenica 27 gennaio 2013

La condiscendenza non è più una virtù

dieci giorni fa, o più - era in effetti il 14 gennaio 2013 - alcune colleghe sono state notate mentre parlavano fittamente a bassa voce, indicandosi reciprocamente dei fogli. Su uno di essi si intravedeva la riproduzione di un attestato.
A una considerazione più attenta, dal momento che - nel mio piccolo - avevo già trattato quel documento, ho capito che le due si stavano riferendo proprio alla questione della sua validità come abilitazione: anch'io mi ero posto l'interrogativo, e mi ero risposto di no; da qui avevo proceduto per l'invio di un avviso scritto alla persona, per sollecitare l'invio di altri documenti comprovanti la sua esperienza professionale.
Ma le due signore, assai infastidite per la mia intromissione, si sono espresse in senso diametralmente opposto: sostenevano che non solo il documento era abilitante, ma anche che la lettera in preparazione non sarebbe servita, anzi sarebbe stata vessatoria nei confronti del Cittadino.
A quel punto, dopo avere espresso - e argomentato sinteticamente il mio parere sulla base delle regole della Camera di Commercio, di fronte alla loro ostinazione sorda le ho "mandate a cagare" uscendo dalla stanza.
Pare che questo - mi è stato riferito dopo - abbia suscitato una canèa.
Lesa maestà si intrufolava nelle pieghe dell' "offesa" personale - udite: a una funzionaria. Nessuno parlava più con me, tutti si allontanavano dall' "appestato". Finché due giorni dopo la Responsabile mi ha parlato, spiegandomi come stavano le cose: tutti sono andati a lamentarsi del mio comportamento. Sono arrivati a chiedere una punizione formale: sono arrivati a proporre il mio allontanamento dall'ufficio.
Non vedevano l'ora di mettermi sotto accusa, al centro del cerchio come una strega.

venerdì 11 gennaio 2013

stivali bianchi e calze a rete

Ieri mattina si è incrociato uno scambio di battute tra due colleghe, presenti noi "maschi" a proposito di un episodio curioso: una di esse, ferma in attesa in strada verso le nove di sera, è stata avvicinata da un'auto,il cui conducente ha chiesto informazioni su una via di quella zona.
Raccontando questo fatto, la protagonista si è lasciata andare a commenti compiaciuti sulla possibilità di fraintendere il suo atteggiamento, dal momento che si trovava sul marciapiede (ovviamente) in ora serale, da sola. E di fronte all'obiezione mossa da alcuni presenti, che "comunque le puttane si riconoscono", ha sottolineato che "spesso sono vestite normali" e che "è lo stivale che fa".
Riflettevo su queste ultime affermazioni, tutte appartenenti all'immaginario indotto femminile. Bene, l'idea che il maschio pavloviano risponda allo stimolo dello stivale in maniera univoca e prevedibile si accompagna al mito della donna-femmina padrona e regolatrice dello scambio sessuale, visto sempre e comunque - al di là della eventuale transazione in denaro - in termini economici. Dare per avere: vantaggi, posizione sociale, regalìe, favori... E addirittura, la donna misconoscendo in questo modo, lasciate stare le eccezioni significative che pur ci saranno in tre miliardi di persone, la propria condizione generale di subordinazione e di sfruttamento, non si accorge di perpetuare così il proprio stato servile e "reificato" cioè ridotto a cosa e in ultima analisi a merce: esattamente come una proletaria che però non offre già la propria forza-lavoro al miglior compratore; cede la propria capacità di costruirsi un destino autonomo alla prevaricazione del potere "forte" maschile. In questo replicando inconsapevolmente la funzione tipica, per la quale la donna è considerata dal maschio: riproduttrice; di braccia (i figli proletari) di eredi (i figli dei potenti) di gerarchie e di sopraffazione. Forse ci meritiamo i governi che abbiamo. Forse si può provare a cambiare.